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L’Europa che muore, l’Europa che rinasce

Redazione Scritto il 23 Gennaio 2019
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Giovanni Cafeo | L'espresso
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di MARCO DAMILANO

L’orrore dei migranti rinchiusi. La striscia di sangue da Jo Cox ad Adamowicz. Il caos della Brexit. L’Unione è nel buio ma non possiamo rassegnarci

L’Europa muore a Samos, nell’isola che fu culla della filosofia greca, il luogo di nascita di Pitagora e di Epicuro, il primo porto del Mediterraneo, secondo Erodoto, a un chilometro e mezzo dalla Turchia. L’Europa muore a Samos, come si era fermata a Lampedusa. E si impaluda tra Bruxelles e Westminster, l’aula del Parlamento inglese le cui fondamenta posano sul terreno limaccioso in riva al fiume Tamigi, per secoli è stata il faro della democrazia liberale e parlamentare, oggi si è trasformata nel regno del caos. L’Europa muore a Danzica, la città del destino per l’intero continente. Nel 1939 fece da involontario pretesto per l’invasione hitleriana della Polonia, mentre le classi dirigenti democratiche si dissolvevano nei bizantinismi e nella viltà. Morire per Danzica non si può, decretò un deputato socialista francese, Marcel Déat: combattiamo insieme per i valori comuni, certo, la libertà e la pace, come no, ma morire per Danzica, questo no.

Nel 1980 a Danzica il regime comunista conobbe la prima crepa, con il riconoscimento del primo sindacato autonomo dal partito e dello Stato, a firmare l’accordo fu un elettricista baffuto chiamato Lech Walesa, sulla penna enorme c’era il ritratto di Karol Wojtyla, il papa polacco Giovanni Paolo II, e fu il primo passo verso la caduta del muro, nel 1989. Nelle prime settimane di questo 2019 a Danzica è stato accoltellato a morte il sindaco Pawel Adamowicz, da uno squilibrato, un lupo solitario come tanti nella storia, che però sanno vedere benissimo dove corrono gli eventi, fiutano il sangue nella direzione del vento. E oggi il vento soffia verso di là: la legge repressiva invece della giustizia, come scrive Massimo Cacciari, una sostituzione ammessa dai nuovi politici del popolo che anticipa la catastrofe, la confusione, la babele degli Stati e dei loro piccoli confini, la meschinità degli egoismi nazionali e delle classi dirigenti imbelli e incapaci di controllare la situazione. Nell’aula di Westminster, ottant’anni fa, quando Hitler aveva già chiarito le sue intenzioni aggressive, risuonarono le parole del premier Neville Chamberlain, nel suo discorso davanti alla Camera dei comuni parlava di Danzica come di una città «etnicamente» quasi del tutto tedesca, per poi aggiungere, incredibilmente: «L’attuale assetto di Danzica non può essere considerato ingiusto o illogico, se vi fosse un’atmosfera più serena si potrebbe anche discutere qualche possibile miglioramento. Il Cancelliere tedesco, parlando al Reichstag, ha affermato che qualora il governo polacco desiderasse discutere nuovi accordi con la Germania per migliorare le relazioni tra i due Paesi, egli ne sarebbe felice». Era il 10 luglio 1939, alla dichiarazione di guerra mancavano meno di due mesi.

Oggi Danzica e Westminster tornano a incrociarsi. Il referendum sulla Brexit è stato l’evento più importante dopo la fine del conflitto mondiale. Una caduta del muro di Berlino alla rovescia. L’irrompere dell’irrazionalità nella storia che scatena la reazione a catena: l’impossibilità delle classi dirigenti di dirigere, vedi il dialogo tra il governo inglese e l’Unione europea, il buio di prospettiva, con il no deal, l’assenza di accordo, che è un’eventualità concreta almeno quanto la ripetizione del referendum, il moltiplicarsi del particolare, la sensazione che tutto possa andare fuori controllo. I migranti, in questa vicenda, sono il nemico interno, la benzina della paura che spinge il motore delle nuove destre. È in questo contesto che si collocano, in Italia, le parate e i silenzi, le antiche e nuove trame nere di cui parlano nella loro inchiesta Paolo Biondani, Federico Marconi e Giovanni Tizian. In questa Europa che muore ci sono i piccoli interessi di contabilità, il programma dei Cinque Stelle che attacca la casta di Strasburgo e gli sprechi, non il primo problema in questa crisi epocale. E quelli dell’Europa delle piccole patrie che sfilano con la divisa di Matteo Salvini: le divise degli uomini dello Stato che uniscono tutti utilizzate come bandiera di divisione.

L’Europa muore, ma noi non possiamo rassegnarci. La vecchia Europa che muore lascia spazio alla rinascita. Di un pensiero politico fondato sulla ragione, in grado di usare le parole che in tanti lettori ci hanno mandato, capace di parlare al sentimento popolare, un popolo che non è un tutto indistinto, come pensano i populisti e sovranisti, ma sono persone unite dai loro valori, in grado di unirsi per una battaglia comune. Adamowicz come Jo Cox, come Antonio Megalizzi: c’è una traccia di sangue che unisce gli eroi della nuova Europa. I nuovi partigiani della futura resistenza, del progetto politico che vale una generazione: l’Europa che rinasce.

Fonte: espresso.repubblica.it

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